(Questo articolo è stato pubblicato con un altro titolo su Nuovo Quotidiano di Puglia, aprile 2017)
Argentina: «Generazione senza prospettive, così si diventa precari con la mente»
Vita e lavoro. Per un tarantino come lui, un binomio quasi obbligato e difatti Cosimo Argentina ne ha fatto la cifra principale della sua scrittura. L’autore ne ha parlato nella due giorni a lui dedicata all’Università del Salento, ospite del ciclo “Working class. Seminari su fabbriche, lavoro e nuove scritture”organizzato dal Centro di ricerca poesia contemporanea e nuove scritture. Dopo il focus sulle serie televisive, l’appuntamento è stato con l’indagine sui multiformi retroscena del lavoro avviata da Argentina. Il tracciato degli asfissianti vicoli di Taranto rossi come il ferro è la pista privilegiata dallo scrittore, così come le molte precarietà che danno una consistenza scivolosa al futuro di chi è giovane oggi. Argentina frequenta il mondo reale delle persone e dei luoghi in cui vivono, si pone in ascolto, sollecita una narrazione che scavi nel territorio autentico delle relazioni e delle scelte, che a un’ottica tanto ravvicinata appare naturalmente intessuto di contraddizioni e conti che non tornano. Un lungo filo rosso cuce così Taranto alla Brianza, dove vive e lavora come docente di Diritto ed Economia a scuola e a cui ha dedicato il romanzo Brianza vigila, Bolivia spera (No Reply 2006)
da “Il cadetto” (Marsilio 1999) a “Cuore di cuoio” (Sironi 2002), da “Maschio adulto solidario” (Manni 2008) a “Vicolo dell’accaio” (Minimum Fax 2013) – solo per citare alcuni dei suoi titoli più noti – si comprende quindi l’“humor nero” di Argentina, uno sguardo sulle cose che ha il sorriso tipico dell’intimità profonda e il ghigno della disillusione. Una “scrittura dinamite”, come è stata definita: graffiante, corporea, irriverente, sincera.
Lavoro e vita corrono di pari passo. Il protagonista di “Maschio adulto solitario” (2008) è un giovane precario alienato: è la precarietà a compromettere la possibilità delle ultime generazioni di sentirsi “adulte”?
«La precarietà in sé non è un male, è una posizione di passaggio se si vuole necessaria. Certo, io ho fatto 29 anni di precariato nella scuola, ma questo è un caso limite. La precarietà io la accetto, la prendo in considerazione e in esame: oggi non c’è più la possibilità di entrare alle Poste a 18 anni poste e uscirne a 65. Tuttavia, è essenziale che insieme alla precarietà ci sia la prospettiva di realizzare qualcosa, ed è questa che manca oggi. Se insieme alla precarietà non c’è la prospettiva, allora si diventa precari anche mentalmente, non ci si evolve, e questo percorso diventa una fregatura».
Parliamo di lavoro e ambiente. Nel ’59 Pierpaolo Pasolini di passaggio da Taranto la definì “la città perfetta”, pochi anni più tardi sarebbe stata inaugurata l’Italsider, poi Ilva. In “Vicolo dell’acciaio” (2010) lei racconta la devastazione della città operata dal colosso industriale. Il cambiamento è stato anche culturale?
«Certo. Il principale è stato far pensare ai tarantini che avrebbero avuto per l’eternità una sorta di stampella, e che non avrebbero dovuto sbattersi più di tanto perché, magari con una raccomandazione, avrebbero trovato un posto con dodici, tredici o quattordici mensilità. È morta di fatto l’idea di un coraggio imprenditoriale che puntasse a valorizzare un territorio che aveva già in sé le sue potenzialità. Ecco, questo è stato un effetto insieme culturale e di ulteriore impatto sul territorio».
Lei insegna Diritto a scuola. Che cosa le sta a cuore trasmettere ai suoi ragazzi, che tra qualche anno dovranno confrontarsi con il mondo del lavoro?
«Innanzitutto ripeto loro che ogni attività umana, anche la più pallosa, ha un risvolto piacevole che vale la pena di coltivare, per cui sarebbe bello se ci si disponesse ad affrontare il mondo dando spazio alla fantasia e al piacere. Poi, è importante cercare di fare qualcosa che piace e in cui si è bravi. Una volta si diceva “evita quella facoltà perché è satura, iscriviti a quell’altra così trovi lavoro”: oggi questi discorsi non hanno più senso. Meglio investire le proprie energie in qualcosa per cui si è portati e in cui, per questo, è più facile raggiungere un buon livello. E infine, cerco di far capire ai miei ragazzi che il periodo scolastico è essenziale perché è quello in cui loro creano il proprio stile personale, che si porteranno dietro tutta la vita, al di là dei singoli contenuti appresi a scuola».
Tornando ai suoi romanzi: c’è un progetto a cui sta lavorando ora?
«Sì, come faccio del resto da trent’anni in qua. Ormai scrivo 365 giorni all’anno, non so fare altrimenti. Al momento sto lavorando a una storia ambientata ancora una volta a Taranto, che riguarda un ragazzino delle medie. Il mio romanzo “Cuore di cuoio” aveva per protagonista un ragazzo delle superiori, “Maschio adulto solitario” uno che aveva appena finito l’università: mi mancava un pezzetto. Chissà che non arrivi un giorno a scrivere di un bimbo in culla».
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