Eugenio Barba. I cinque continenti del teatro

(Questo articolo è stato pubblicato con un altro titolo su Nuovo Quotidiano di Puglia, ottobre 2017)

Si può parlare di teatro senza riconoscere lo scricchiolio degli assi di un palcoscenico o comprendere la fatica di un training che si prolunga per ore, si può carpire il senso un’opera teatrale senza muovere lo sguardo verso la platea che la ospita, senza pesare i calcoli dei conti? Un insigne storico del teatro, Nicola Savarese, e uno dei più importanti rivoluzionari del teatro del Novecento, Eugenio Barba, si addentrano nello spazio quotidiano, concreto di chi fa teatro, per restituirne la dimensione autentica, in bilico tra spirito e corpo, arte e mestiere. “I cinque continenti del teatro. Fatti e leggende della cultura materiale dell’attore” (Edizioni di Pagina 2017) è il poderoso manuale che completa idealmente, a oltre trent’anni di distanza, il primo, storico lavoro comune “L’arte segreta dell’attore” (1983). Barba e Savarese tornano dietro le quinte dalla peculiare prospettiva dell’antropologia teatrale: uno studio degli oggetti e dei comportamenti che stanno oltre le luci della ribalta, le ragioni sociali della produzione e le condizioni della diffusione del teatro.

Quali feste ne hanno scandito gli appuntamenti? Come si mantengono gli attori? Che cosa si inventano per far pagare il biglietto? Da che cosa nascono le fortune di un impresario, le sue disgrazie? Ad orientare la ricerca le cinque domande del giornalismo anglosassone, rivisitate per l’occasione: quando, dalle danze nelle caverne allo spettacolo sul palcoscenico; dove, dalle corti agli edifici teatrali, fino alla disseminazione contemporanea; come, ovvero le tecniche; per chi, lo spettatore – che, avverte il testo, è sempre “plurale”; infine “perché”: uno scandaglio intenso e commovente delle ragioni del teatro. «Si dice che l’attore è al centro – dichiara Barba – ma poi si parla sempre di testi, di teatri, mai del sapere tacito degli attori».

Nella prefazione al testo, Nicola Savarese riferisce di una gestazione durata vent’anni. In questo lungo tempo quale metodo ha orientato la sua ricerca?

«Il libro è nato all’interno dell’ambiente legato alla Scuola nazionale di antropologia teatrale. È andata perfezionandosi l’idea che bisognasse partire dal presente per andare al passato, attraverso la ricerca sul campo della scuola, la nostra esperienza personale. Ciò che interessava Savarese e me era complementare: il suo obiettivo era di documentare la storia usando l’iconografia, il mio una storia del teatro che partisse dagli attori: si dice che l’attore è al centro, ma poi si parla sempre di testi, di teatri, mai del sapere tacito degli attori».

E la “cultura materiale dell’attore” è appunto il focus del libro: ciò che l’attore deve saper fare, dal training all’organizzazione di una pièce, dall’allestimento di un palco al rapporto con le istituzioni. Come si costruisce questa cultura?

«È impossibile insegnare il teatro, ma questo è sempre stato appreso da una generazione dopo l’altra. Dietro questo paradosso c’è il fatto che chi apprende imita, proprio come avviene per i muratori, i panettieri e i falegnami. Fino a circa la metà del ventesimo secolo chi voleva fare teatro apprendeva direttamente in compagnia. L’idea alla base della scuola è stata quella di separare l’apprendimento dall’ambiente pratico, che spesso poteva indulgere in cliché e soluzioni facili per impressionare gli spettatori. Solo che quando tu fai crescere dei giovani in una scuola, questi sviluppano un sapere che non ha a che vedere con la realtà. Una volta usciti devono abdicare alle bellissime idee apprese nei loro corsi per potersi guadagnare il pane nel sistema o mercato del teatro».

In un lungo excursus si attraversano le corti e dalle piazze per approdare al “teatro all’italiana”, il luogo canonico della rappresentazione, e infine al “teatro su misura” dei gruppi sperimentali, come anche lo “spazio-fiume” dell’Odin Teatret. Quanto conta lo spazio nella costruzione del prodotto artistico teatrale?

«Lo spazio decide la tecnica dell’attore. Una cosa è presentare una storia a degli spettatori seduti difronte a te, su un palcoscenico che mostra tutto quello che avviene, tutt’altra è fare uno spettacolo come quello nello spazio-fiume. Il nostro punto di partenza è stata una palestra: invece di ricostruire una cattiva copia del teatro all’italiana abbiamo creato qualcosa di diverso, abbiamo messo gli spettatori gli uni difronte agli altri, con gli attori che scorrevano come un fiume nel mezzo. Ciò presuppone che se guardo un attore a destra non riesco a vedere ciò che avviene a sinistra: le categorie del tempo e dello spazio, fondamentali per orientarsi, sono in parte impedite. In un teatro all’italiana riesci a dominare ciò che avviene, nello spazio-fiume lo spettatore è chiamato a fare un montaggio personale. Questo per l’attore è conseguenza fondamentale: a livello tecnico, ad esempio, è chiamato a calibrare la gestualità. Ma questo comporta delle conseguenze anche a livello culturale, come il non aver più bisogno dei teatri, ciò che avviene con la grande rivoluzione degli anni Sessanta. Il “dove” è l’indicazione di una scelta politica».

In un altro intervento sollecita a ricucire le due ali dell’“Angelanimal”, ovvero lo spettatore un po’ angelo, che comunica su un piano concettuale, un po’ animale, emotivo e carnale.

«Sensoriale direi: legato a un piacere fisico, come un bambino che gioca con l’acqua. Esiste tutta una dimensione legata alla memoria e forse alla “spiritualità” che noi non concettualizziamo. Uno spettacolo deve prendere in considerazione anche questo aspetto. Per molto tempo la musica è stata una parte fondamentale del teatro, ci sono documenti che mostrano come per la Comédie Francaise fino al 1850 la spesa più grande fosse costituita dall’orchestra che accompagnava gli spettacoli di Moliere, Racine e Corneille. Col tempo la comunicazione emotiva è scomparsa per lasciare il posto a quella che viene chiamata sperimentazione, basata molto sulla comunicazione verbale, dai futuristi e dadaisti al simbolismo, al teatro dell’assurdo, Ionesco, Beckett. Per me l’immagine fondamentale del teatro contemporaneo è “Giorni felici” di Bechett, che ha seppellito l’attore fino a trasformarlo in una testa che parla».

Parliamo degli ambienti di apprendistato: quelli “aggregati razionalmente” sembrano i più efficaci, ma gli ambienti “organici”, come quello dell’Odin, rappresentano una scelta di vita, un ethos prima ancora che un progetto artistico.

«Nel libro ho cercato di sottolineare come questi due cammini siano entrambi legittimi. Nell’organizzazione razionale tutto viene pensato per essere efficiente, e dunque si scelgono determinate persone, determinati procedimenti che hanno già dato la loro prova di funzionamento. Nell’ambiente organico esiste un’affinità basata su necessità personali che trovano sfogo o attraverso un orizzonte ideologico, o di rigore artistico, una “vocazione” che chiama e spinge a rimanere».