Un rapporto d’amore non risolto

Nicola Lagioia. Memorie feroci, presente da brand, il gatto Lunedì. Di Puglia, scrittura e altre nevrosi, a un anno dallo Strega
«Un rapporto d’amore non risolto»

Un anno fa, al Ninfeo di Villa Giulia, era stato il racconto affilato della Puglia e delle contraddizioni della sua storia recente a “consegnargli” quel liquore agitato a trofeo, e un sorriso altrettanto dorato.
Il Premio Strega, e la consacrazione ufficiale nel firmamento degli scrittori contemporanei, per Nicola Lagioia sono arrivati così: trasformando Bari e il suo piccolo arsenale di conflitti privati in un serbatoio di «domande aperte» comuni a un’intera generazione.

Gli anni Ottanta, il volo ruggente e impietoso di un’area del Sud Italia, il prezzo esistenziale pagato dai figli, in una parola, “La ferocia” di quella storia che dà il titolo al romanzo edito da Einaudi fanno da tappeto a uno sforzo di comprensione che oggi è quanto mai attivo nel lavoro dello scrittore barese. A un anno da quella serata a Villa Giulia, tornano la Puglia e il suo alterno negoziato tra un passato anonimo e un presente da brand.

Romano” d’elezione da diversi anni, scava però nella sua Puglia nel romanzo vincitore dello Strega, come nel precedente “Riportando tutto a casa” e in vari interventi sulla stampa. Quanto ha inciso questo trasferimento nella qualità del suo sguardo?

«Molto. Quando ero ragazzino avevo un rapporto conflittuale con la Puglia, a quell’età “devi” emanciparti dalla terra d’origine e riesci a farlo con i rozzi strumenti che hai, solo in termini di conflitto. Poi è divenuto piuttosto un rapporto d’amore non risolto, non riconciliato, e quindi vivo, di continua interrogazione e corpo a corpo. Trovo che la Puglia sia un luogo meraviglioso, il più bello d’Italia, ma è anche una terra di fantasmi per me. Oltretutto, veniamo da un decennio particolare, in cui si pensava che potessimo fare il salto, che però non c’è stato. Certo, sarebbe stato difficile, considerando il contesto generale».

Parliamo del Salento. In “Babbo Natale. Ovvero come la Coca-Cola ha colonizzato il nostro immaginario collettivo” o nel racconto “Fine della violenza” ha condotto una critica feroce all’ansia da prestazione sociale legata al “macchina” della festa. Scriverebbe qualcosa di simile, percorrendo le spiagge di Gallipoli in pieno luglio?

«Come in molte cose, la situazione presenta aspetti contraddittori. Il turismo di massa porta soldi a una terra povera come il Salento. Certo, sviluppo e progresso, come diceva Pasolini, non necessariamente vanno di pari passo, e l’intelligenza di una regione sta nell’evitare di accogliere il turismo in maniera indiscriminata. Quando vado a Gallipoli e vedo quel “casino” preferisco spostarmi altrove, ma forse è anche una questione anagrafica. Detto questo, quali sarebbero le alternative? L’Ilva? Abbiamo visto com’è messa Taranto. Da parte mia trovo positivo il modo in cui la Puglia ha ridisegnato la propria immagine rispetto a quando io ero ragazzino, quando “c’erano” le orecchiette con le cime di rape e poco più. Sono felice che si riscoprano anche le radici culturali della Puglia, quelle di Tommaso Fiore e Gaetano Salvemini».

C’è un luogo del Salento a cui è legato?

«La costa orientale e, in particolare, un ristorantino vicino al ponte del Ciolo. Penso anche all’area in cui si parla griko, che rende il Salento un luogo plurale. E poi i luoghi di Carmelo Bene: la Baia dei Turchi, Otranto, Campi Salentina, Copertino con il “frate che vola”».

Della Puglia, tuttavia, vede anche altro. All’indomani del disastro ferroviario di Corato ha descritto le vittime come «i corpi e i volti di chi è stato lasciato indietro». È la politica ad aver lasciato indietro i cittadini? O piuttosto questi, ad aver smesso di pensarsi come “comunità”?

«Bisogna ancora far pienamente luce sulle cause della tragedia, detto questo, è un fatto che gli investimenti tra Nord e Sud del Paese sulla rete ferroviaria, e di conseguenza sulla sicurezza, siano sproporzionati. I cittadini sono incolpevoli, sono quelli che ora contano i morti. A me sembra che la comunità dei cittadini rivendichi da anni i servizi essenziali: il problema è di chi dovrebbe colmare il divario tra le due Italie».

Torniamo al romanzo e al premio. In questo intenso anno di presentazioni, qual è quella che le sta più a cuore? E la più disastrosa?

«Una bellissima, tre settimane fa a Napoli per il festival “Un’altra galassia”, in un monastero di monache di clausura. Ci è stato chiesto di evocare il fantasma di un grande scrittore, io ho letto Roberto Bolaño: è stata una delle emozioni più intense provate girando per l’Italia. La peggiore in Sicilia, in una libreria: mi avevano invitato ma non sapevano neppure perché, e mi sono ritrovato ad essere ospite sgradito a una mia presentazione».

Ha dichiarato che il suo gatto, Lunedì, la aiuta a difendersi dal demone del fallimento. Dopo lo Strega il vostro rapporto si è evoluto?

«Quando scrivi ti confronti con gli altri, leggi libri di grandi autori e provi sempre una specie di sentimento di inadeguatezza rispetto alle cose belle che ti capitano sottomano. Non essendo io uno scrittore seriale, poi, ogni nuovo libro è una sfida nuova, un modello narrativo che non ho mai affrontato: forse potrei sentirmi sicuro di me se scrivessi “La ferocia 2.0”, replicando il già fatto. Quindi no, il rapporto col gatto non si è evoluto».

Il premio di quest’anno è andato a “La scuola cattolica” di Edoardo Albinati, un romanzo che, pur diverso dal suo, come “La ferocia” scava nel marcio dell’alta borghesia italiana. Lei però ha sostenuto pubblicamente Giordano Meacci.

«Sono contento che abbia vinto Albinati. Se avesse vinto Meacci lo sarei stato ancora di più, ma comunque vince un romanzo complesso, che fa del rapporto non risolto con l’Italia il proprio motore narrativo: un romanzo che probabilmente resterà».

E lei? Lavora a un nuovo progetto, ora?

«Sto lavorando, sì, ma fin quando non ho qualcosa in mano non lo dico. L’opera letteraria “in corso” è come i negativi delle macchine fotografiche: se li esponi al sole li bruci. E io sono ancora in quella fase».

 

(Questo articolo è stato pubblicato con un altro titolo su Nuovo Quotidiano di Puglia, luglio 2016)