“Come una conchiglia”. Taranto prima dell’acciaio

Una città di lidi e bagnanti che non esiste più nel reportage di Pier Paolo Pasolini per il mensile «Successo», estate 1959
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Come una conchiglia». Taranto prima dell’acciaio

 «Recarsi a Taranto, passare accanto all’Ilva, fotografare il cielo rosso che copre la città». Chissà che cosa avrebbe pensato, Pier Paolo Pasolini, se invece che nel 1959 avesse raggiunto oggi il capoluogo tarantino a bordo della sua Fiat 1100 e, da una qualunque prospettiva, a salutarlo fossero stati i fumi dell’enorme colosso industriale stagliato alto nel cielo. Quel cielo rosso di cui, oggi, persino una pubblicazione a finalità turistiche “consiglia” – sarcasticamente – la visione («101 cose da fare in Puglia almeno una volta nella vita», 2009, firmata dal tarantino Rossano Astremo).

Lui, che nell’estate del ’59 si lanciò nell’esplorazione della «Lunga strada di sabbia» della penisola italiana – questo il nome del reportage pubblicato in tre puntate, da luglio a settembre, sul mensile «Successo» – della città aveva notato piuttosto il mare, la vita sospesa dei vacanzieri e il mistero pneumatico degli occhi degli uomini, profondi e terribili come lo Jonio. Protesa su quel mare con le sue due penisole – di qua la città nuova, di là, gremita, quella vecchia – Taranto gli sembrava la città perfetta. «Viverci – scrisse – è come vivere all’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta».

In quel caldo mese di agosto, nulla si mostrava ancora della modernità industriale, se non le navi da guerra inglesi, italiane, americane, ormeggiate nel porto militare, straniere di passaggio che non riuscivano a scalfire il cuore primitivo del popolo tarantino. Chissà se non avrà percepito come un affronto personale l’inaugurazione, sei anni più tardi, della più grande acciaieria d’Europa – l’Italsider – emblema stesso di quello sviluppo che lo scrittore friulano criticherà ferocemente, responsabile, a suo dire, dello «sterminio delle lucciole» quanto di un «genocidio culturale» (nell’articolo «Il vuoto del potere», pubblicato nel ’75 sul Corriere della Sera). Nel ’59, in realtà, l’impianto era già in costruzione da diversi anni ma, si sa, un camino acceso non fa lo stesso effetto di uno spento.

Questa, comunque, è un’altra storia. Nel ’59, a stagliarsi nel cielo tarantino erano piuttosto i camerini sparsi per il lungomare, fissati su palafitte, «traballanti, sconnessi, aperti a tutti i venti (e a tutti i ladri)». Le lucciole, forse, ci saranno ancora state, ma il vero spettacolo della natura era, a Taranto, il bagno delle donne. Nella speranza di arpionare l’immagine di una schiena, l’incavo di un fianco o una coscia, per loro lunghissime file di ragazzetti restavano appesi per ore alle ringhiere arrugginite: «Sono svelti, stretti di anca, grandi di occhio, lunghi di naso – commentava Pasolini – un’elica gli gira dentro, l’elica del sesso, della curiosità, della voglia di esistere».

I maschi fremono e scalpitano, forse pervasi da un’ansia che va oltre la bramosia sessuale. Le donne, invece, non ne vogliono sapere, sguazzano «nell’acquetta» e accarezzano supine, come fosse il proprio stesso sogno, un «futuro di madri di famiglia, dopo la breve tragedia dell’amore, che sta per venire».

Il bagno è la sintesi perfetta della società pugliese del tempo, società tradizionale, fatta di riti ripetuti, di ruoli e posizioni determinati. Se sulla spiaggia di Taranto è il pudore a tenere separati uomini e donne, a Santa Maria di Leuca sarà il ceto sociale, che segna persino gli scogli pianeggianti riservati ai baroni.

«Volo per la costa meno nota d’Italia» scriverà Pasolini nel raggiungere l’estremo capo della Puglia dal capoluogo jonico. Annotazioni che appaiono “incredibili” se lette con lo sguardo dell’oggi, con il Salento reduce da un’estate da record, nella quale il problema, semmai, è stata la gestione del massiccio flusso turistico.

In un tempo preciso del suo esistere, tempo di confine, al limite di una società preindustriale necessariamente destinata a scomparire, lo sguardo di Pasolini cristallizza l’immagine di quel mondo, carico di una meraviglia primitiva: «Taranto, che sui suoi due mari scintilla come un gigantesco diamante in frantumi».

Non c’è traccia, in questo reportage, delle parole divenute parte della cultura collettiva e della quotidianità dei pugliesi (e come avrebbe potuto, del resto, servirsene Pasolini?): “lavoro”, “benessere”, “riscatto”, parole usate come dardi infuocati dalla classe dirigente dei primi anni Sessanta, che per l’immensa fabbrica si batté in tutte le sedi, mentre a Lecce, negli stessi anni, si lavorava al consolidamento dell’Università.

Ma non c’è neanche traccia delle parole chiave dell’immaginario tarantino degli ultimi anni, divenute titoli di inchieste giudiziarie e giornalistiche, di opere cinematografiche e romanzi.

I camerini e i bagni in mare, questo è certo, oggi sono un lontano ricordo. Recarsi a Taranto, osservare il cielo rosso che copre la città, fa riflettere sul viaggio di Pasolini e su quel suo sguardo che captò il bagliore del mare, l’età dell’innocenza di una città disadorna ed essenziale, bella come un’ostrica aperta.

 

(Questo articolo è stato pubblicato con un altro titolo su Nuovo Quotidiano di Puglia, settembre 2015)