«Fondamentalismo, una questione politica»

(Questo articolo è stato pubblicato con un altro titolo su Nuovo Quotidiano di Puglia, febbraio 2016)

Massimo Introvigne. Il sociologo cattolico che guarda al mix di politica, religione e contesto sociale per spiegare i nuovi terrorismi.

«Fondamentalismo, una questione politica»

«Essere continuamente additati come terroristi è una profezia che si autoavvera. Certo, c’è comunque di mezzo una scelta di tipo ideologico». Politica, religione e contesto sociale si fondono nella visione del fondamentalismo islamico di Massimo Introvigne. Il sociologo è intervenuto ieri pomeriggio all’Hilton Garden Hinn di Lecce, al convegno promosso da Alleanza Cattolica e Progetto Osservatorio, “Terrore in nome di Allah. Dallo stato islamico alle nostre città. Che cos’è, come prevenirlo, come affrontarlo”. Introvigne, reggente vicario di Alleanza Cattolica, è fondatore e direttore del Cesnur, Centro studi sulle nuove religioni. Docente di Sociologia dei movimenti religiosi all’Università Pontificia Salesiana di Torino, ha sviluppato la teoria dell’economia religiosa di Rodney Stark, applicando categorie socio-economiche allo studio dei fondamentalismi.

Al convegno, moderato da Francesco Cavallo di Alleanza Cattolica, Introvigne ha diviso il palco con Alfredo Mantici, attualmente direttore del quotidiano “Look out news” e già capo del dipartimento analisi del Sisde.

Professor Introvigne, equiparando le dottrine religiose a un “prodotto” di mercato, a quale tipo di “consumatore religioso” si rivolge l’ultrafondamentalismo islamico?

«Bisogna fare una premessa: per l’Islam politica e religione non sono due ambiti distinti. Alla domanda fondamentale dei musulmani, sul perché l’Islam non sia la più grande potenza politica e militare del mondo come il Corano promette, c’è chi risponde chiamando in causa l’arretratezza rispetto all’Occidente, e chi l’eccessiva vicinanza con l’Occidente. Tra questi ultimi ci sono i consumatori del “prodotto fondamentalismo”. Considerando la teoria, inaugurata da Stark, che lei richiama, possiamo distinguere tra un mercato religioso “inter brand” e un mercato “intra brand”, che definisce ad esempio un cattolico di Comunione e liberazione o di un gruppo parrocchiale. Nel mercato intra brand islamico, fino alla Seconda guerra mondiale ha prevalso la linea modernista; la linea salafita-fondamentalista, prima diffusa soprattutto tra le classi subalterne, ha raggiunto il potere quando i leader modernisti, governando, hanno scontentato le popolazioni. L’offerta fondamentalista si è poi distinta tra quella dei Fratelli musulmani, più “partitica”, che punta a egemonizzare la vita sociale e a vincere le elezioni, e quella terroristica, che intende colpire i “pupari dell’Occidente”. Dopo gli attentati dell’11 settembre e il fallimento dei loro obiettivi emerge un’ulteriore opposizione interna ad Al Qaeda, che si formalizza nel 2014 con la nascita dell’Isis. Per capire l’ultrafondamentalismo islamico si deve far riferimento a questa storia, che è insieme politica e religiosa. In tutto ciò, non dimentichiamo che nel mondo musulmano esiste una terza linea “conservatrice”, legata alla tradizione ma disponibile a un certo dialogo».

Sul fronte interno, quanto peso ha lo scarso spazio di cittadinanza dei nuovi europei sulla nuova tendenza al fondamentalismo?

«Essere cittadini europei non cambia l’essere musulmani, e dunque appartenere anche politicamente a una delle correnti richiamate. In Europa abbiamo difficoltà a capire questo concetto perché, dall’Illuminismo in poi, per noi l’identità religiosa non è quella dominante, mentre per i musulmani, tranne che per piccole elite laiche, politica e religione sono strettamente legate. Certo pesa la sensazione di essere discriminati a scuola o sul lavoro: venire continuamente additati come terroristi finisce per essere una profezia che si autoavvera. Ma se la discriminazione è una premessa importante, perché si arrivi alla conseguenza c’è comunque di mezzo una scelta di tipo ideologico, diversamente non si spiega perché la stragrande maggioranza dei musulmani compia un percorso diverso».

Parliamo dell’Isis: qual è la sua attuale consistenza?

«Se parliamo di numeri dei combattenti, non lo sa nessuno, neanche i Servizi segreti, le cui stime sono estremamente variabili. Sappiamo però con certezza che molti di loro non sono siriani né iracheni, ma vengono arruolati con una propaganda rivolta ai musulmani di tutto il mondo compresa l’Italia. Gli attentati in Occidente servono proprio a questo: sono “spot” della potenza militare dell’Isis».

Come considera la posizione della Francia in questo contesto geopolitico?

«La Francia è particolarmente detestata dall’Isis, perché ha lasciato in Siria un esercito composto quasi esclusivamente da alawiti, che sono circa il 15 % della popolazione. Certe vignette di Charlie Hebdo avranno rinfocolato l’avversione verso la Francia, ma di certo la vera questione riguarda il tentativo di controllo attraverso una minoranza ristretta».

La costruzione di nuove frontiere europee è una soluzione adeguata alla battaglia contro il terrorismo?

«No, non lo è. Intanto, il sistema della prima accoglienza definito dagli accordi di Dublino oggi non avrebbe più senso, è stato travolto dai numeri, ed è giusto che i rifugiati, ma anche gli immigrati che fuggono dalla disperazione economica siano distribuiti equamente tra i Paesi europei. Al momento assistiamo a una dimostrazione di egoismo e anche di miopia, perché si finirà per arrivare al collasso del sistema di accoglienza, con conseguenze sociali rilevanti per Paesi come l’Italia o la Grecia. Certo, dovremmo lavorare soprattutto perché queste persone non partano, che significa fermare miseria e guerre».