«La nostra rivoluzione quotidiana»

(Questo articolo è stato pubblicato con un altro titolo su Nuovo Quotidiano di Puglia, gennaio 2016)

Eugenio Barba, “padre” dell’Odin Teatret. A lui è dedicato il documentario di Davide Barletti e Jacopo Quadri, “Il paese dove gli alberi volano”. Nel 2016 torna a Lecce per un progetto in collaborazione con i Cantieri Koreja. E – dice – non ammette Capitali della cultura che non sostengano il teatro

«La nostra rivoluzione quotidiana»

Molto più che un palcoscenico, il teatro è lavoro fisico, pratica “politica”, incontro tra popoli e generazioni, e «può interferire nella vita quotidiana delle persone»: parola di Eugenio Barba, il “padre” dell’Odin Teatret, a cui è dedicato il documentario di Davide Barletti e Jacopo Quadri. Il gruppo tornerà nel Salento proprio quest’anno. Ma, ammonisce Barba, perché possa realizzarsi il potenziale magico del teatro c’è bisogno che anche la politica faccia la sua parte, a differenza di quanto è accaduto nella città candidata a Capitale europea della cultura.

Gli autori del documentario hanno dichiarato «all’Odin Teatret abbiamo trovato un paese magico». Dove risiede, secondo lei, la magia dell’Odin?

«L’Odin Teatret è un ambiente di creazione artistica che da più di mezzo secolo è generato dallo stesso nucleo di persone. È passato per una serie di trasformazioni che fanno risaltare alcune caratteristiche percepite immediatamente da chi ci visita, che si tratti della divisione del lavoro, dell’organizzazione degli spazi, della varietà di iniziative e del modo di accogliere gli ospiti. L’accordo del lavoro artistico, pratico e organizzativo, una disciplina che fa trapelare motivazioni personali, l’internazionalità dei componenti da una decina di Paesi che, in una lingua che non è la loro, hanno stabilito forti legami con la popolazione di Holstebro: indubbiamente l’ambiente dell’Odin ha un suo stile che colpisce».

Il documentario mostra Iben Nagel Rasmussen intenta a stirare, e lei che parla del taglio della legna. Ci sta dicendo che il teatro, per funzionare, deve evitare lo scollamento con la realtà, con l’ordinario, con il corpo?

«È salutare creare variazioni nel ritmo mentale e fisico nelle proprie attività. È anche necessario perché non abbiamo abbastanza denaro e quindi, se vogliamo ingrandire una sala, dobbiamo farlo con le nostre mani. L’Odin riceve delle sovvenzioni per il 60% del nostro fabbisogno. Vi sono venticinque collaboratori fissi e il nostro fatturato è di circa due milioni di euro l’anno. Quindi noi dobbiamo guadagnare almeno 6-700.000 euro con le nostre attività se vogliamo mantenere la nostra autonomia. Allora si comprende l’importanza della fantasia per trovare modi di applicare il sapere teatrale in altre situazioni che non siano solo spettacoli. Do un esempio: la Festuge, la settimana di festa, che il film di Jacopo Quadri e Davide Barletti descrive nei suoi tratti poetici, che sono dettagli e soluzioni reali. Durante i giorni della Festuge viene allo scoperto la spettacolarità delle forme di collaborazione tra la polizia e i rifugiati, tra i soldati della caserma e le scuole, tra le chiese e le associazioni di sport, tra bande di dilettanti, cori, maneggi coi loro cavali e bambini: tutte le manifestazioni delle varie subculture che alimentano la vita sociale ed economica. Abbiamo cominciato senza un euro, venticinque anni fa, oggi la Festuge è diventata un progetto realizzato in tredici Paesi e riceve degli appoggi economici dall’Unione europea».

Qual è il suo bilancio di questi primi cinquant’anni dell’Odin Teatret? In Italia sarebbe stato possibile?

«Non vale la pena ragionare su categorie ipotetiche. Vi sono esempi di riuscita nel campo del teatro anche in Italia. Pensi a Koreja a Lecce, un punto di riferimento internazionale e un efficace catalizzatore nell’intero territorio salentino. È un’ignominia che i politici di Lecce non lo appoggino. Pensi al ridicolo e alla faccia di bronzo di un sindaco che candida Lecce a Capitale Europea della Cultura e ci offre come esempio la totale cecità verso i meriti di Koreja. Francamente non vogliamo simili capitali culturali».

Il passaggio dell’Odin Teatret da Carpignano Salentino nel 1974 ha contribuito ad inaugurare una nuova stagione culturale nel Salento. La rivedremo qui da noi, con un progetto simile?

«Pensavo che l’Odin non sarebbe più tornato a lungo nel Salento. Invece nel settembre del 2014 l’assessorato alla Cultura della Regione e il Teatro pubblico pugliese realizzarono un progetto internazionale per i cinquant’anni anni dell’Odin. Portava il titolo del critico teatrale Egidio Pani: “I mari della vita: dal Mediterraneo al mare del Nord”. Sembra che l’Odin abbia il Salento nel suo karma. Ritorneremo nel 2016 e nel 2017, per una stretta collaborazione artistica e culturale con Koreja che parte da questa domanda: in che modo può il teatro interferire nella vita quotidiana delle persone? La stessa domanda che originò l’attività a Carpignano quarant’anni fa. È come se l’Odin non volesse cambiare la testa».