Bye bye Salento

(Questo reportage è stato pubblicato con un altro titolo su nuovo Quotidiano di puglia, novembre 2015)

Nel 2014 in 1655 hanno lasciato la provincia di Lecce, 226 in più rispetto all’anno precedente. Primato in Puglia per tasso di emigratorietà. «Oggi quarto tempo dell’emigrazione: mancano le politiche per il lavoro»

Bye bye Salento

Laurea, master e abilitazione, bei titoli da appendere al muro o da affidare alla deriva di migliaia di biglietti da visita. Oppure diploma e attrezzi del mestiere, da impiegare nella troppo angusta attività di famiglia o, a nero, al servizio di datori che si sentono ancora un po’ “padroni”. L’emorragia dei salentini che abbandonano la terra d’origine parte da qui. Una scelta amara per molti, che vanno via dopo essersi visti con le spalle al muro; felice per altri, che a fare il percorso inverso non ci pensano proprio. Con alcune, positive eccezioni, che tengono vivo il sogno di una terra non solo bella da fotografare in vacanza, ma anche “buona”, in cui vale la pena di tornare per trovare una realizzazione.

Sono migliaia le storie di chi ogni anno lascia il Salento per trasferirsi all’estero. Il 2014 ne ha contate, per la precisione, 1655, secondo i dati raccolti nell’ultimo Rapporto Istat sui trasferimenti di residenza, pubblicato pochi giorni fa. Numeri dai quali bisogna, necessariamente, partire per dipanarsi nell’immenso crogiolo di esperienze, scelte, prospettive, chiamato “fenomeno migratorio”.

Un punto di partenza che mostra, inequivocabilmente, un fenomeno in veloce e massiccia crescita, di cui la provincia salentina detiene il primato in Puglia.

In valori assoluti, secondo il Rapporto Istat richiamato, nel 2014 in provincia di Lecce i cancellati per trasferimenti all’estero sono stati 1655, di cui 696 donne e 959 uomini. Il dato ha subito un’impennata significativa nell’arco dell’ultimo anno, aggiungendo ben 226 unità ai 1429 trasferimenti verso l’estero del 2013 – di cui 636 donne, 793 uomini – ma confermando il trend di crescita, evidente a confronto con il dato del 2012, che aveva registrato 1280 trasferimenti, 149 in meno rispetto all’anno successivo.

Una tendenza in linea, c’è da dirlo, con il contesto italiano, che ha visto nel 2014 circa 89mila italiani lasciare il Paese, di cui il 50 % ha un’età compresa tra i 15 e i 39 anni; trasferimenti sono stati l’8,2% rispetto al 2013, che ne aveva contati 82mila. Sempre secondo Istat, negli ultimi cinque anni, ovvero nel periodo successivo alla crisi del 2008, il numero degli emigrati italiani è più che raddoppiato. Germania, Regno Unito, Svizzera e Francia, i Paesi forti dell’Europa occidentali, le principali mete di destinazione. Continuano a emigrare i laureati – soprattutto per UK e Germania – 20mila nel 2014, +3,4%, anche se in 7mila hanno fatto ritorno in Italia.

In questo contesto, tuttavia, il quadro salentino risulta particolarmente dinamico, anche rispetto alle altre province pugliesi. Nel 2014 Lecce è stata la seconda, in termini assoluti, per numero di “emigranti” dopo Bari, che conta 1884 trasferimenti all’estero. Tuttavia, tali cifre assumono un valore diverso se considerate in relazione al numero degli abitanti in ogni territorio: da quest’ottica, il Salento detiene il primato pugliese. Lecce infatti, caso unico nella regione, rientra tra le province il cui tasso di emigratorietà (riferito ai soli cittadini italiani) è compreso tra l’1,4 e l’1,6 ogni mille abitanti. A Brindisi il valore oscilla tra 1,2 e 1,4 per mille, mentre nelle altre province, Bari, Foggia e Bat, il dato si attesta tra lo 0,7 e l’1,2.

Ma perché si emigra? Una prima risposta può essere fornita dalle statistiche sull’occupazione, che riguardano il Salento come l’intero territorio meridionale. Il Rapporto Svimez 2015 sull’economia del Mezzogiorno evidenzia l’allargamento del gap tra il Sud e il Nord Italia, oltre che rispetto al Nord Europa, conseguente alla crisi: mentre il Centro-Nord è in ripresa già dal 2015, il Sud resta fermo. E il mercato del lavoro è il luogo di maggiore allargamento dei divari: Sud-Nord, generazionale e di genere.

E non c’è da stupirsi se i giovani vanno via, anche coloro che avrebbero tutte le carte in regola per ambire a un lavoro ben retribuito. Secondo il Rapporto Cirp-Almalaurea sugli esiti occupazionali dei neo laureati pugliesi, questi ultimi guadagnano meno sia rispetto alla media italiana che ai colleghi del Sud; per contro, chi si trasferisce fuori dalla Puglia ha un guadagno medio più elevato.

Anche per questo, forse, «ben un terzo dei diplomati pugliesi del 2014, circa 7mila su 20mila, ha scelto di proseguire gli studi in altre regioni», dichiara Andrea Ventura, delegato al Sistema informativo-statistico dell’Università del Salento. Relativamente al contesto salentino, «a cinque anni dalla laurea il 70% di coloro che hanno studiato all’Università del Salento ha un impiego, contro un 77% di media nazionale, il 22% non lavora ma è in cerca di occupazione (12% la media nazionale), mentre il rimanente 8% non lavora e non cerca lavoro (11% la media nazionale)» dichiara Ventura, citando l’indagine Almalaurea 2014 su un campione di 2703 laureati.

Il lavoro resta il tasto dolente. E tra chi va via ci sono “gli arrabbiati”, che non ci pensano nemmeno a sfidare il “blocco” di burocrazia, familismo e inerzia che, dicono, caratterizza il Salento così come il Sud, e “i nostalgici”, che altrove hanno apposto solo il proprio indirizzo di residenza, ma continuano a sentirsi in tutto e per tutto salentini e, qui sognano i tornare.

I social network rappresentano un buon punto d’osservazione. Su Facebook, ad esempio, una miriade di gruppi riunisce i salentini sparsi, “sparpagliati”, in giro per il mondo: alla domanda «tornereste?» tutti concordano sulle condizioni che rendono comunque impossibile questa prospettiva: «Sono a Croydon da un anno e mezzo, ma tornerei di corsa se l’Italia si risollevasse, anche stanotte» scrive Noemi Gargiulo, membro del gruppo “Salentini a Londra”; Yari Luchino Licci è partito dieci mesi fa anche per migliorare l’inglese e fare un’esperienza all’estero ma «non nascondo il fatto che se avessi avuto l’opportunità di poter lavorare in Italia con una discreta occupazione – commenta – non avrei mai lasciato la mia città».

«Stiamo assistendo a un quarto tempo – dichiara Anna Lucia Denitto, docente di Storia contemporanea all’Università del Salento – dopo le emigrazioni dei contadini poveri di fine Ottocento, l’ondata che parte dal secondo Dopoguerra e l’emigrazione intellettuale successiva alla crisi degli anni Settanta, oggi ci troviamo in presenza di un fenomeno che coinvolge sia i lavoratori non qualificati che quelli altamente professionalizzati. Il motivo? Certamente ha contribuito la crisi economica del 2008, ma tutto questo è stato preparato dalle politiche neoliberiste affermatesi dagli anni Settanta. La conseguenza è oggi un’ondata migratoria più composita, ma anche più grave e preoccupante, che colpisce le parti più giovani del nostro Paese. E le politiche per il lavoro, le uniche che potrebbero far restare questi giovani in Italia, sono particolarmente carenti».

Certo, è vero pure che spostarsi è anche sinonimo di crescita, prima di tutto culturale, e che non a tutti, al momento di partire, torna in mente “Amara terra mia”, la struggente canzone di Domenico Modugno, “inno” per eccellenza dell’emigrante. Il problema inizia quando questa diventa una scelta obbligata. «Certo è un arricchimento aprirsi al confronto, che diventa arricchimento anche per il Paese, se i giovani che partono poi ritornano – commenta Denitto – ma ora stiamo assistendo a una perdita sempre più grave, con la conseguenza ulteriore di un impoverimento civile e politico, poiché vengono a mancare coloro che dovrebbero rinnovare la classe dirigente».

Lea Barletti, attrice, Berlino

«Io, spirito nomade. Tornerò quando avrò trovato pace»

Ha provato a tornare a casa, ma ha resistito solo qualche anno. Poi, via, verso Berlino, il centro nevralgico dell’arte contemporanea in Europa. Ma la “gabbia” da cui evadere non era questione di luoghi, quanto di un’“inquietudine d’artista” che non l’ha mai abbandonata. Lea Barletti, attrice e regista teatrale salentina, vive nella capitale tedesca da cinque anni, dove ha dato vita a numerosi spettacoli e iniziative. Tra questi, “Autodiffamazione”, opera bilingue dal testo di Peter Handke che da circa tre anni lei e Werner Waas portano in giro tra Italia e Germania; e “Materiali per una tragedia tedesca”, il nuovo spettacolo dal testo di Antonio Tarantino che debutterà il 13 dicembre.

Il richiamo del teatro ha origine a Lecce, nei corsi di Astragali con Marcello Primiceri. Ma sin da giovane Barletti si trasferisce a Roma, dove vive per più di vent’anni e incontra Werner Waas, che diventa il suo compagno nella vita e a teatro. Insieme, alcuni anni fa, decidono di tuffarsi a Sud, nel Salento, richiamati non tanto dalle “radici” di Lea quanto dal fermento culturale che in quel periodo sta riattivando il territorio. E difatti i due sono tra i fondatori del progetto collettivo alla base delle Manifatture Knos e del K-Now, residenza teatrale giunta quest’anno alla settima edizione. Ma si è trattato di una folgorazione durata appena cinque anni.

A far loro riaprire le valige non è stata tanto la difficoltà di fare teatro nel Salento, quanto un’“inquietudine” che non ha mai abbandonato il percorso artistico di Barletti. «Mi sono resa conto che, almeno per me, un ritorno non è possibile – dice – e questo semplicemente perché non c’è davvero un luogo, da nessuna parte, che io possa chiamare casa. È una condizione interna, di spaesamento, che ha in fondo poco a che fare con i luoghi e le possibilità che offrono. Certo, l’impressione è che le meravigliose persone che ci sono nel Salento spesso siano come isole galleggianti nel mare, senza nessun collegamento tra loro., con le dovute eccezioni. Ma probabilmente me ne sarei andata comunque».

Dal 2012 Barletti e Waas vivono e lavorano a Berlino, dove «la gente fa cose eccezionali ma è molto umile, e i soldi, pur pochi che siano, arrivano puntuali».

Ritorno, almeno per ora, è una parola che non appartiene al loro vocabolario. «Se un giorno avrò trovato una casa, allora smetterò di fare teatro, e forse anche di scrivere, e mi metterò a coltivare un orto, e a fare marmellate. Se dovessi trovare pace, allora si, il Salento mi sembrerebbe un buon posto dove vivere».

Riccardo Raho, dottorando di Ingegneria dei materiali, Los Angeles

«Il mio sogno, fare ricerca nel Salento»

Il suo sogno era la California, non quella del surf e delle grandi onde del Pacifico, ma della tecnologia e dei laboratori d’avanguardia. Riccardo Raho, copertinese classe 1985, quel volo lo ha preso finalmente domenica scorsa, alla volta della University of California Riverside di Los Angeles. Lì, precisamente nel dipartimento di Bioingegneria, sarà “visitor student” fino all’estate prossima, potendo svolgere le sue ricerche nell’ambito dei nanomateriali in mezzo ai “numi” dell’accademia internazionale e con l’ausilio di supporti avveniristici. Ma in tasca ha già il biglietto di ritorno, e non gli pesa affatto, perché nelle sue prospettive di crescita “in patria” ci crede davvero.

Quella di Riccardo è, infatti, anche la storia di quel Salento dinamico e d’eccellenza, che fa da contraltare ai tanti buchi neri in cui si perdono il lavoro e le competenze dei giovani salentini.

Il suo percorso parte all’Università del Salento, dove da studente incrocia Alessandro Sannino, la “mente” di brevetti internazionali noti in tutto il mondo nel campo degli idrogeli.

«Devo essere onesto, inizialmente ho scelto Lecce perché lì c’erano famiglia, amici, affetti e il gruppo con cui facevo musica – racconta – ma mi sono subito reso conto della qualità del dipartimento di Ingegneria dell’innovazione».

Da qui, l’opportunità di svolgere la tesi di laurea negli Stati Uniti, al New Jersey Istitute of Tecnology, con una borsa di studio finanziata da Gelesis, spin-off dell’Università del Salento diretta da Sannino. Quindi un dottorato in Ingegneria dei materiali, delle strutture e delle nanotecnologie e il sogno, raggiunto, di tornare negli Stati Uniti: «Ci ho lavorato un anno e mezzo –spiega – per chi svolge un dottorato è previsto un periodo all’estero, ma non è semplice entrare alla UCR. Certo ha contribuito il fatto che il gruppo di ricerca salentino sia molto apprezzato, e che mi abbia dato la possibilità di partecipare a congressi europei e pubblicare su riviste con un alto “impact factor”».

Proprio per questo, non ha dubbi: il suo futuro lo vede nel Salento: «Mi interessa l’estero dopo il dottorato, ma per tre o quattro anni al massimo, poi tornerei, anche per non abbandonare il territorio, non disperdere le energie e le competenze, cercando di costruire piuttosto che scappare. Come dice Sannino, “i fondi non mancano per le buone idee”: piangersi addosso è inutile, non dimentichiamoci che alcune delle più grandi ricerche sono iniziate in un fondo scala o in un garage».

Luigi Patruno, dottorando, Harvard

«Non mi manca la mia terra, chi parte non può tornare»

Dieci anni fa, quando era un brillante neolaureato in Lingue dell’Università degli studi di Lecce, per Luigi Patruno l’estero non era un must né una priorità. Dopo la tesi sul teatro barocco spagnolo, pubblicata su una rivista accademica di Madrid, la sua idea era piuttosto quella di immergersi nella ricerca, protetto dalla tranquilla vita di provincia. Per questo aveva tentato un dottorato in storia medievale, sviluppando alcune idee contenute nella tesi, ma al concorso fu escluso per pochi punti, dovendo competere, tra gli altri, con due docenti delle scuole superiori.

La scintilla è scattata allora. Solo un’esperienza, si era detto, ma quel volo sarebbe diventato una scelta di vita. «Un’Università messicana mi aveva invitato per un progetto di ricerca, ma non c’erano i fondi – racconta – contemporaneamente un liceo italiano in Argentina mi propose di insegnare per un anno. Partii con l’idea di mettere qualcosa da parte per poi volare in Messico, ma a Buenos Aires è cambiato tutto. Ho vissuto lì quattro anni, insegnavo di mattina e di pomeriggio seguivo i corsi di un master in Letteratura latinoamericana all’Università di Buenos Aires. Mi appassionavo sempre più al nuovo campo di studi, sicuramente stimolato dall’esperienza dei miei professori, molti dei quali erano tornati in Argentina dopo un esilio politico oppure avevano vissuto nella clandestinità durante gli anni della dittatura militare».

Così, nel 2008 decide di trasformare quell’amalgama di critica letteraria ed esercizio politico in un progetto di ricerca. Partecipa a diversi concorsi negli Stati Uniti, e questa volta viene accettato, in più di un Ateneo. Sceglie Harvard.

E lì, nella cittadina di Cambridge, Massachusetts, che ospita la più facoltosa Università del mondo, risiede ancora oggi, e ormai è l’idea del ritorno a non essere più un must né una priorità. «In questo momento ho una borsa di studio che mi consente di finire il mio dottorato, senza dover insegnare – spiega – tornare? Leonardo Sciascia diceva che chi fa l’errore di partire non può fare l’errore di tornare. Non mi manca la mia terra, semmai ciò che mi manca è l’infanzia. Ad ogni modo, non credo che la mia esperienza sia l’unica legittima. Walter Benjamin immaginava due tipi di narratore: il mercante, che porta da lontano le sue storie, e il sedentario, che racconta le proprie tradizioni. Il grande narratore deve necessariamente combinare entrambe le esperienze e unire la conoscenza dei paesi remoti al passato dei residenti».

Gianluca D’Aversa, ristoratore, Londra

«Qui aiutati dallo Stato, in Italia è tutto più difficile»

Il percorso era stato quello canonico, i progetti futuri strizzavano l’occhio a un Salento in piena crescita, ma la sua fortuna l’ha trovata lontano, ripartendo da zero. E ora sogna di tornare, portando con sé il proprio bagaglio costruito in anni di duro lavoro, ma pieni di speranza. Gianluca D’Aversa, leccese, laurea a Rimini in Economia del turismo, da dieci anni vive a Londra dove è proprietario di una gastronomia e di un ristorante dall’inconfondibile nome salentino: “La Pizzica”. Insieme ai suoi fratelli, Rocco e Ivan, e la fidanzata di quest’ultimo, è riuscito a farsi un nome nel giro dei professionisti italiani che abitano nella verde area di Fulham, ma anche degli inglesi che vanno matti per la genuina semplicità della cucina italiana. «Proponiamo piatti della tradizione regionale – spiega – certo i rustici non mancano e li facciamo qui da noi, così come ciceri e tria, fave e cicorie, purpu alla pignata che è uno dei nostri piatti più venduti».

Ma come ci sono finiti i fratelli D’Aversa a Londra? Complice è stato lo “schiaffo” del mondo del lavoro al Sud. «Ho fatto una sola esperienza lavorativa nel Salento, nel 2000 – racconta – quando ero ancora uno studente universitario, e quella mi è servita per decidere che non avrei mai più lavorato come dipendente lì da noi. I patti non vennero rispettati, venivo pagato una miseria e non ero neppure in regola».

Quindi la scelta di andare a Londra, inizialmente per perfezionare la lingua. Ma il mondo della ristorazione nel Regno Unito, per un italiano con un po’ di esperienza, è praticamente dietro l’angolo. «Ho fatto il pizzaiolo per una catena di ristoranti inglesi, un lavoro da cui in realtà ho imparato molto su come si gestisce un locale. Ho poi fatto il cameriere, il supervisor, il ristorant manager, e nel 2009 ho deciso di fare il salto aprendo la nostra gastronomia. Inizialmente facevamo l’aperitivo italiano, abbiamo avuto successo e in poco tempo siamo riusciti ad avviare il ristorante, che da poco ha ricevuto il “Marchio di qualità dell’ospitalità italiana” dalla Camera di commercio italiana a Londra».

Tra le pareti del ristorante decorate da paralumi in pietra leccese, il cuore, però, resta a 3mila chilometri più a Sud. «Il mio sogno è ancora quello di tornare, ma quando lo farò sarà con un mio progetto – dice – certo, avere successo in Italia vale cento volte averlo a Londra: qui lo Stato ti aiuta, se apri un’azienda le prime ottantamila sterline che incassi sono “tax free” e su molti prodotti non c’è l’Iva, in Italia lo Stato ti fa chiudere ancor prima di aprire».