(Questo testo è stato scritto per il Diario di Teatro Koreja, Lecce)
La scena si apre su uno sterminato piano orizzontale di cui non vediamo la fine. Nessun palco, ma un tappeto di terra che si infila nei sandali e si posa sui vestiti quando si alza il vento.
Non ci sono riflettori, ma una canicola meridiana che toglie il respiro. Il nostro percorso verso la performance del 29 luglio parte da qui, un uliveto in contrada La Corte, nelle campagne di Aradeo.
Qualche centinaio di maestosi alberi che segnano immemori la mappa del tempo di questo angolo di Salento, sopravvissuti a tramonti e generazioni, che ci attendono immobili come statue di sale.
Eppure, addentrandosi nel campo, seguendo passo dopo passo la circonferenza delle chiome, da più di una pianta scorgiamo il dietro le quinte di un ramo secco, foglie rubate alla propria immagine di atemporalità e consegnate alla sfera dell’effimero. Gli alberi di ulivo del Salento stanno morendo.
Partiamo da qui, da un pomeriggio di sole faccia a faccia con la natura transeunte della nostra storia, per lo studio della performance collettiva che vuole essere più di una prova di teatro.
“Santolivo”, il nome di ciò che rappresenteremo il 29 luglio nel centro di Aradeo, è il rito di un’intera comunità che celebra la propria identità maturata nel corso di centinaia d’anni accanto agli ulivi, e che oggi è chiamata a ripensarsi, nell’imminenza di un funerale che cambierà il volto del paesaggio, l’economia del territorio, la memoria collettiva del paese.
Il gruppo di oggi, coordinato dalla regista danese Anna Stigsaard con la collaborazione delle attrici di Teatro Koreja Emanuela Pisicchio e Anna Chiara Ingrosso, è quello dei partecipanti del laboratorio “Pratica in cerca di teoria” diretto da Riccardo Lanzarone.
«Scegliete un albero» ci dice Anna imbracciando una piccola fisarmonica e intonando un canto.
Nelle successive due ore, ci viene spiegato, dovremo dimenticare il lavoro per lo spettacolo e ritornare all’origine intima del progetto, raccoglierne il senso: ritrovare un dialogo con le piante.
Non saranno ore inutili: ce ne accorgiamo quando la terra si insinua nei nostri sandali e procediamo verso gli alberi zoppicando, nel ridicolo tentativo di scansare la polvere. Rivendichiamo la storia della campagna, eppure siamo ormai estranei alla terra. Oggi, in questo uliveto, sceglieremo un albero, lo abbracceremo, ci lasceremo abbracciare. Ne conteremo i nodi, ripercorreremo la direzione delle radici, ricorderemo le nostre vittoriose, quanto traballanti, imprese infantili orchestrate sui rami più possenti, le altalene appese, la sorpresa di quanto amara sia un’oliva raccolta da terra. Balleremo con gli alberi – un tango, una rumba, un impercettibile movimento del piede, non importa come – parleremo con gli alberi.
Li accudiremo, ci vestiremo a lutto e li piangeremo, come farebbe una vedova con il proprio vecchio marito. Penseremo gli ulivi per ciò che sono: esseri viventi.
«Senza rendermene conto, ho iniziato a sorridere, come se mi trovassi difronte un amico» dice un ragazzo del gruppo. «Io ho pensato a mia madre che non c’è più» commenta un’altra. «Ho sentito la sua forma sotto le mie mani, possente. E mi sono ricordato ciò che si dice: che un ulivo sopravvive alle sue stesse ceneri». Oggi, sopravviverà a questo disseccamento che lo scava dall’interno? Si troverà un’ipotesi condivisa che dia un nome e un cognome a questa calamità?
Le nostre domande sono aliti di terra, calore umido esalato dal basso, sbuffi di scirocco che si rincorrono senza un punto d’arrivo, come un cane con la propria coda. In fondo, non siamo qui per darci risposte – queste risposte: lo aveva detto Salvatore Tramacere, il direttore dei Cantieri Teatrali Koreja, salutando il progetto la sera prima, nelle vicine campagne di Karadrà. «L’arte deve piuttosto porre domande: il nostro compito sarà quello di interrogare il territorio, chi con gli ulivi ha vissuto, chi ne ha fatto una risorsa».
Parole che assumono un peso specifico aumentato nel luogo divenuto simbolo elettivo dell’amore per la terra – scelto non a caso per la presentazione – dove un tenace gruppo di giovani ha messo da parte lauree e viaggi per dedicarsi alla coltivazione di un’antica specie di pomodori. Quella sera ci avevano accolti ancora sporchi di terra, fatti accomodare e ritornati a ultimare il lavoro nei campi per una buona mezz’ora. E a tutti noi, convocati in quel luogo per riflettere sull’imminente morte dell’ulivo, era venuta in mente una riflessione preliminare: la legge dei campi esige devozione.
La nostra, avrà la forma di una domanda. Proprio in quella domanda, nella tensione che ci richiama ad essa, sta il senso di ciò che facciamo, come aveva suggerito, quella stessa sera, il paesologo Franco Arminio. «L’arte è chiamata a supplire le disattenzioni e le diserzioni delle agenzie che dovrebbero occuparsi per mestiere di questioni come questa. Abitare nel Salento e trascurare questa malattia è un’apocalisse: non si può essere distratti davanti al dolore. Il 29 luglio non si realizzerà un gesto produttivo, non si salverà la terra, però sarà un gesto sacro, un gesto morale. E noi abbiamo bisogno di gesti d’affezione che ci leghino ai luoghi».
Partiamo da qui.