Il mondo è dietro l’angolo se hai occhi per guardarlo

(Questo testo è stato pubblicato sul sito internet dell’Accademia mediterranea dell’attore, accademiama.it, novembre 2015)

Il film come un gioco serio. Seminario con Edoardo Winspeare, Lecce, ottobre-novembre 2015

Il mondo è dietro l’angolo se hai occhi per guardarlo

«Mia madre mi disse non devi giocare con gli zingari nel bosco». Pescando un’immagine a caso della nostra prima lezione all’accademia AMA, mi viene in mente questo verso di Fabrizio De Andrè. Cresciuto nello strano indirizzo di un castello, allevato in collegio e poi formatosi all’estero, Edoardo Winspeare ha messo in un fazzoletto il corredo di storie e strumenti “come si conviene” per mettersi in viaggio verso il proprio bosco.

Una strada personale, sconveniente, a ritroso, verso la dimensione pericolosa di un Salento ancora sconosciuto alla macchina da presa. E scegliendo di guardare “quello che non c’è”, ha contribuito a creare quell’immaginario, oggi internazionale, che passa dalla Taranta e dagli ulivi, dalle radici di famiglia e dal movimento, esuberante quanto talvolta spregiudicato, del sangue vivo. Tutto è cominciato da una folgorazione. «Avevo bisogno di tornare alla realtà – racconta – il Salento ha questo vantaggio: si è facilmente contaminati dalla realtà». Le facce, le mani, il sole quasi zenitale di questa terra hanno prodotto il richiamo necessario.

Non ci “insegnerà” a fare cinema, piuttosto racconterà ciò che il cinema significa per lui, e in che modo lo ha attraversato. Esordisce così, in questa prima lezione del primo anno di corso dell’accademia AMA. Ci ritroviamo qui al Cineporto di Lecce come in un’intersezione di direttrici diverse. Essere attori, regolare i nostri conti, scappare da uffici, studi e aule universitarie. Siamo un magma di volontà discordi, ma che si toccano in un punto comune dei nostri desideri. Guardare oltre.

La storia di questo rapimento candido, disarmato e innocente, ci convince, ci invita a entrare.

«Volti nuovi, occhi nuovi, alcuni timidi, altri riservati, altri francamente accoglienti – riflette Gabriella Margiotta – tutti animati dalla stessa passione, una malattia incurabile, la definisco io…entra il “nostro” Edoardo Winspeare, alto, dinoccolato, timido, arrossisce, e mentre tutto si scioglie, è più fluido il discorso, invogliato da domande e grandi sorrisi di interesse vero».

La lezione è una confessione e un’interlocuzione. Parliamo molto – qualcuno ne ha bisogno più degli altri. Facciamo tutti molte domande.

Il nostro insegnante sparge input. Li raccoglie, scrupolosamente, Paolo Stanca, il più grande tra noi, che qui è tornato ad essere un diligentissimo allievo: «Nel cinema, il pubblico dell’attore è il regista. Il regista è un manipolatore, provocatore e motivatore».

Si racconta, Winspeare. Racconta delle dinamiche ibride di una famiglia che ha voluto chiudere tutta nei suoi film, dei personaggi scovati nei bar di paese. Per lui, la storia che andrà a sviluppare si annida là, in quei quei volti che hanno già in sé il futuro di un frame o l’immagine di un manifesto. Il lavoro del regista, dunque, è un rimestare e uno smuovere la verità, portare scompiglio là dove “c’è già” un carattere, un colore, una voce. Non è un imperativo categorico, si affretta a precisare, ma una questione di poetica – la sua.

Così, se stesse girando un film probabilmente preferirebbe la direzione di uno sguardo o una ruga del volto alla padronanza della recitazione, ma qui intanto leggiamo e ci sforziamo di essere anche ciò che non siamo.

A turno, con un copione in mano, diventiamo una coppia in crisi e un gruppo di ultras, una militante politica e un malavitoso locale, un ragazzo ingenuo, un sindaco. Leggiamo più volte, sino a quando non ci sentiamo “addosso” la forma di accenti, sospensioni e punti di domanda. Una prima volta per comprendere il testo, una seconda per svolgerne il sottotesto, dando voce al monologo interiore che farfuglia dubbi, ricordi, strategie premessi all’apparente semplicità del “detto”, una terza per portarne all’estremo l’intenzione, cercare la qualità esatta dell’emozione che sollecita la parola, un’ultima volta per tornare all’origine, spogliarci dell’eccesso. La potenza della recitazione è messa al bando, al cinema, per il bene della verosimiglianza, commenta il nostro insegnante. Nel suo cinema poi, è un valore pressoché assoluto.

Winspeare ci osserva, suggerisce una smorfia, un atteggiamento a cui aggrapparci per mettere in atto l’esperimento. Partire sempre dal corpo, dalla memoria delle sue reazioni: per essere trovata, per essere trasmessa, l’emozione ha bisogno d’essere evocata dal proprio gesto peculiare. Basta un pugno sul tavolo, la contrazione della mascella, un sospiro. Ma stare in agguato, sempre, dalla rappresentazione: non fingere, ma “stare in ascolto” è la premessa necessaria. La strada giusta è quella orientata a una reazione che sia viva, che sia autentica.

«L’attore è curioso. L’attore di cinema deve essere credibile. L’attore di cinema interpreta il personaggio trasferendo su questo le sue emozioni» appunta Paolo Stanca.

Un film è un gioco serio, commenta Edoardo. È l’ontologia stessa di un’opera cinematografica, che coinvolge tutti, regista e attori in primis. Per Rosaria De Benedittis, c’entra molto la curiosità del nostro insegnante: «Sul viso di eterno adolescente colpiscono in particolar modo gli occhi vispi, attenti, che sorridono e comunicano ancor prima di proferire, mettendo in risalto il suo pensiero giocoso e gioioso della vita. Una filosofia che trasmigra naturalmente nell’ambito lavorativo, dove l’esigenza del giocare seriamente diventa innata, fondamentale per dare sfogo alla sua inventiva, alle sue certezze, al suo impegno. Winspeare è un uomo che emoziona, come può emozionare un uomo innamorato qual è, come può emozionare un uomo “ben educato”, ossia abituato a far venire fuori, ad esprimere con stile e intelligenza la propria originalità e il proprio talento creativo».

Trascorriamo con lui le prime quattro lezioni del corso. Ai primi di novembre conosciamo tutti i nostri nomi, abbiamo condiviso diversi pranzi e almeno un particolare della nostra storia, sorrisi, molti, ma anche sbadigli e, pure, sguardi di sbieco. Siamo una classe. «AMA è anche la terza persona singolare del verbo “amare” – riflette Antonella Sabetta – e cosa c’è di più bello e di più importante dell’amore passionale – e per “passionale” qui intendo il teatro e il cinema? Questo mio primo piccolo viaggio nel mondo del cinema, grazie alla figura e alla professionalità di Edoardo Winspeare, mi ha dato una bella energia, una visione più completa di tutto quel sistema. Interessante il percorso. Si parte da un’idea che poi prende forma, diventa una sceneggiatura, da cui prendono vita i personaggi e infine nasce un film. Un po’ come la vita».

E, a volte, basta guardarsi dietro l’angolo per trovare una bella storia. Ce ne ricorderemo anche noi. Dite a mia madre che non tornerò.