(Questo reportage è stato pubblicato con un altro titolo su nuovo Quotidiano di Puglia, gennaio 2016)
Anche all’accademia di Belle arti di Lecce arrivano gli studenti provenienti dalla Cina. In un anno il numero di matricole è raddoppiato, mentre i salentini diminuiscono. Il direttore Delli Santi: «Per noi risorsa anche economica»
L’Accademia parla cinese
Per il primo è stata quasi un’impresa donchisciottesca, gli altri sono stati incuriositi dal passaparola, infine la sigla formale di due convenzioni ha fatto il resto. E così oggi un piccolo popolo di studenti cinesi affolla corridoi e laboratori dell’Accademia di Belle arti di Lecce. Quasi settanta ragazzi, fiore all’occhiello di un’Istituzione che punta fortemente a internazionalizzarsi, ma che rappresentano, allo stesso tempo, un’ancora di salvezza nel pieno di un’emorragia di iscritti salentini.
I numeri parlano chiaro. Su un totale di 540 studenti del 2014-15, gli immatricolati sono stati 219 e tra questi, venti, circa un decimo, provenivano dalla Cina. Nel 2015-16, su una popolazione studentesca di 528 studenti, gli immatricolati sono stati in tutto 183, di cui ben 41 cinesi, il doppio rispetto all’anno precedente, arrivati a incidere per il 22 % sul contingente delle matricole. In sintesi, mentre i salentini si dirigono altrove, l’appeal sugli studenti cinesi continua a crescere vertiginosamente.
Ad oggi, sono in tutto 66 i ragazzi che hanno lasciato il grande Paese asiatico con le sue metropoli sconfinate per approdare nel piccolo Salento. «È vero, quest’anno c’è stata una riduzione di iscritti, legata a cause diverse, non ultima forse una difficoltà economica delle famiglie – commenta il direttore dell’Accademia Claudio Delli Santi – considerando anche i costi non trascurabili per l’acquisto del materiale. C’è da dire che dai Licei artistici di Poggiardo e Lecce vengono poche matricole, e la situazione paradossale è che chi ha la maturità artistica si iscrive all’Università, mentre i nostri ragazzi hanno studiato altrove, spesso dopo aver lottato sin dalle medie con le loro famiglie per avere una formazione artistica. Dai cinesi, invece, stiamo avendo degli ottimi riscontri».
L’idea di aprire a questo “mercato” potenzialmente vastissimo si è concretizzata, in realtà, un paio d’anni fa, in ritardo rispetto ad altre realtà accademiche, che difatti contano già su solidi contingenti di studenti stranieri. Sta di fatto che l’Accademia di Lecce vive, oggi, la fase “aurea” di un nuovo periodo votato all’internazionalizzazione. Tra gli stranieri non europei che studiano in Accademia, molti aderiscono ai programmi Turandot o Marco Polo; a questi si aggiungono poi gli iscritti veri e propri. Il primo a decidere di compiere la “grande traversata” alla volta del Salento è stato Hongbo Shi, uno studente oggi ventiseienne originario di Shangqiu, che sei anni fa è riuscito a scovare Lecce sulla carta geografica in piena autonomia. Dopo di lui, alcuni altri arrivi isolati, sino al “boom” seguito alla firma di due convenzioni con altrettanti Campus scolastici cinesi, Bohai University di Jinzhou, e Xi’an University of science and technology di Gaoxin.
Le scuole, lì, invitano i docenti dell’Accademia almeno una volta l’anno, per fare orientamento presso di loro. E le famiglie benestanti cinesi, tutte con un solo figlio (la legge sul secondogenito è di poche settimane fa) fanno i salti mortali per permettere ai loro ragazzi di andarsene. In patria hanno strutture avveniristiche, campus grandi quanto un’intera cittadina italiana, un’organizzazione che fa invidia, ma gli italiani restano «i primi della classe» nel loro immaginario.
La scelta leccese, poi, è più economica di altre e consente oltretutto di venire a contatto con un ambiente ancora autenticamente “italiano”, a differenza di altre Accademie, come Venezia, Milano o Roma, con già all’attivo diverse centinaia di iscritti cinesi.
«Certo, non vorrei che arrivassimo a tanto – commenta Delli Santi – mi interessa piuttosto che si integri il sistema. È importante per la nostra Accademia che si trova al profondo Sud: questi ragazzi per noi sono una risorsa culturale. E certo, perché no, una garanzia economica, in un momento in cui vengono meno i salentini».
Un modo, forse, anche per ripotenziare l’immagine dell’Accademia. E la nuova sfida, accarezzata dai vertici dell’Istituzione, sarebbe quella di riuscire a organizzare uno scambio reciproco di studenti e docenti, a partire da una dieci giorni leccese, promossa con il sostegno vitale delle Istituzioni cinesi. A questo si sta già lavorando.
Hongbo Shi, detto “Francesco”, è stato il primo studente cinese a iscriversi all’Accademia di belle arti di Lecce
«Se trovassi lavoro qui non me ne andrei più»
Cinque anni fa è stato lui ad aprire la strada alla piccola comunità artistica degli studenti cinesi, e il mese prossimo sarà il primo di loro a laurearsi. Viene da Shangqiu, una città di otto milioni di abitanti nella regione di Henan, al centro del Paese. Hongbo Shi è il suo nome all’anagrafe, ma a Lecce tutti lo conoscono come “Francesco”. Non un’imposizione da parte della cultura d’arrivo, ma una scelta consapevole dello studente che si sente un po’ italiano e ama visceralmente il Salento. Tanto che scambierebbe senza pensarci due volte la certezza delle sue prospettive in Cina con la possibilità di vivere a Lecce per tutta la vita.
Sei stato il primo studente cinese a iscriversi all’Accademia di Belle arti di Lecce. Che cosa ti ha portato qui?
«Per chi vuole fare arte una formazione “italiana” è imprescindibile. Noi studiamo molto duramente e siamo perfettamente in grado di riprodurre ciò che ci sta intorno, meglio degli italiani, ma ci manca la “visione”. Quando ho scelto di studiare in Italia non volevo andare in una grande città in cui l’Accademia fosse già piena di cinesi, come Roma o Milano. Una mia amica, sposata con un leccese, mi aveva detto che questo era un luogo bellissimo, e mi ha convinto. Allora non c’era nessuna convenzione tra l’Accademia di Lecce e la Cina, è stata una mia scelta personale».
Come ti sei trovato?
«Quando sono arrivato conoscevo poco l’italiano, lo avevo studiato quattro o cinque mesi. Alcuni docenti dell’Accademia si sono impegnati a trovarmi una casa in viale Rossini e lì, grazie ai miei primi coinquilini, ho imparato davvero la lingua. Poi il contesto confortevole dell’Accademia di Lecce ha fatto il resto. I miei amici che studiano a Roma non sanno neppure dove sedersi, qui invece i professori hanno la possibilità di spiegare e con me hanno sempre avuto la pazienza di farlo».
Da quando in Accademia sono arrivati altri cinesi, sei praticamente il loro tutor, o meglio un “mediatore”.
«L’anno scorso ho vinto il bando delle “150 ore” e così sono diventato ufficialmente tutor, ma in pratica ho sempre svolto questo ruolo e anche ora continuo a farlo. In realtà mi piacerebbe continuare a lavorare nell’ambito dei rapporti Italia-Cina, ormai conosco entrambe le lingue e le culture, mi sono fatto una competenza».
Vorresti restare a Lecce?
«Moltissimo. Se tonassi in Cina, dopo questi anni in Italia troverei sicuramente un buon lavoro, ma sarebbe un peccato. Mi sono formato qui, i miei amici sono a Lecce, e io stesso, anche se fuori sono cinese, dentro mi sento italiano».
È un investimento per una famiglia cinese mandare il proprio figlio a studiare fuori?
«Se studiassi a Milano pagherei un affitto più o meno paragonabile a Pechino. A Lecce spendo 160 euro al mese, un costo fattibile, e anche la retta dell’Accademia non è alta a confronto con le Accademie pubbliche cinesi. C’è da considerare che la mia è una generazione di figli unici, per cui le famiglie tendono a investire molto sul proprio unico erede».
Vieni da una grande città di un Paese in crescita vertiginosa. Qual è il bilancio, a confronto con il capoluogo salentino?
«In Cina tutto si sviluppa velocemente, se c’è un problema deve essere risolto sul momento, per cui c’è anche meno burocrazia. Un esempio emblematico è il Teatro Apollo: lo stavano ristrutturando già quando sono arrivato, da noi avrebbero finito i lavori in pochi mesi. Qui tutto scorre più lentamente, nel bene e nel male. Ma Lecce è una città meravigliosa in cui vivere, innanzitutto perché non c’è l’inquinamento delle nostre metropoli. Il problema è che l’economia è meno sviluppata e il lavoro scarseggia. Lo ripeto: se trovassi lavoro qui non me ne andrei più».