La dimensione del corpo

(Questo testo è stato pubblicato sul sito internet dell’Accademia mediterranea dell’attore, accademiama.it, dicembre 2015)

Teatro come relazione erotica. Un seminario con Mario Perrotta, Lecce, novembre 2015

La dimensione del corpo

Prima di subire la conformazione di una lingua, prima di avere in consegna un’identità incartata in un documento d’anagrafe, siamo nati con un corpo. Prima della voce e della parola, prima dei nostri nomi e cognomi, viene il nostro corpo. Ciò che accade dopo, e intorno, e oltre, è un’ontologia fuori misura per questo palco. Ciò che, sullo scricchiolio di queste assi, dice senza preamboli o postille “io sono”, è il peso e il palpito del nostro corpo.

Ci stranisce che a sostenerlo sia Mario Perrotta, che ha fatto della narrazione la cifra stessa del proprio lavoro. Più tardi capiremo, quando la voce – e i discorsi che vi si posano – verranno fuori naturalmente come una boccata d’aria o un gemito liberato.

Per ora stiamo in circolo, niente nomi o domande. Veniamo guidati a scomporci, lasciar scorrere le energie, liquefarci. La testa, il collo, la colonna vertebrale, sino al coccige, sino alle dita dei piedi.

Esistere ha un segno qui, ed è il nostro “stare”. Appena potrà riprendere il suo quaderno, Paolo Stanca appunterà la lezione: «L’attore “sta”. Lo “stare” è dinamico, esprime già un’emozione, un’azione». Così, muoversi qui è l’unico modo plausibile di “innescarsi” come macchine attoriali. “Parlare” è “agire sul corpo di un altro” – agire “il” corpo di un altro: altrimenti non è affatto.

Mario Perrotta riadatta i piedi, fa oscillare le teste, esige tensione o riposo. Non parla a noi, ma ai muscoli e alle viscere in cui quel “noi” si sedimenta e trova espressione.

«Non vola una mosca sul palcoscenico popolato di passione – ripenserà più tardi Gabriella Margiotta – tutti beviamo a larghi sorsi ogni parola, ogni gesto, ogni sguardo severo, di una severità che è solo disciplina e profonda passione per la ricerca teatrale». Ma è una ricerca eccentrica, perché ci comanda di smettere di cercare. «L’attore è come un bambino, non usa il “cervello”, cioè la sua parte razionale, ma la sua parte “emozionale”, e come tale è vero, spontaneo, istintivo, innocente, leale e irrazionale» appunta Paolo Stanca.

Non facciamo molto, ma ci si richiede che sia fatto bene. Training, ascolto, interazione. Così concentrati, sembriamo giunchi sotto la pioggia.

Ci viene chiesto di camminare. Dopo pochi metri scopriremo che si tratta di un esercizio difficile. Scopriremo, dentro quel nostro incedere rallentato e zoomato, che dietro ogni passo, nell’alternarsi di contrazione e tensione, si ripresenta intatto il ciclo di vita e morte che tiene in piedi l’esistenza; e un segreto perduto negli abissi dell’infanzia tornerà a suggerirci quale fatica sia stata mettere un passo per la prima volta.

Acceleriamo. La forza motrice segna sette, otto, dieci. Corriamo come schegge impazzite. Tocchiamo con mano – e con un gomito, una spalla, la punta di due nasi che si sfiorano o si scontrano – l’antica arte dello stare al mondo. Siamo terrestri, acquatici, ariosi. Prendiamo anche fuoco: ogni azione ha un’intenzione predominante, e noi tentiamo di attraversarle tutte – di attraversarci.

Quando ci fermiamo, siamo carichi di tutto ciò che abbiamo fatto: essere immobili o in movimento a questo punto non fa differenza, anzi, sfiorare quella soglia moltiplica la potenza. Il nostro centro è tornato ad assestarsi al proprio posto, nel diaframma. È questo il momento, ci dice Mario Perrotta, in cui erompe la parola. Rubo il taccuino di Paolo Stanca: «La parola è “azione”. È  l’espressione della nostra azione alla massima intensità (che va da zero a dieci) che genera la parola, e non viceversa».

Il mio taccuino invece è vuoto. Ho bisogno di pensare, di assimilare l’esperienza di oggi alle domande che lanciavo come strali bianchi quando chiedevo formalmente di poter essere qui: «La vita va attraversata. Va messa in atto, agita: ma andrebbe agita sotto, e non sopra, la superficie del mondo. Sollecitata dall’interno, smossa, scossa nei nervi, “innervosita”».

«Sono rimasto molto colpito da Mario – mi scriverà più tardi Dario De Mitry – il teatro è creatività, ma allo stesso tempo è anche serietà e disciplina! Ogni parte del nostro corpo va studiata ed analizzata per conoscere anche i propri limiti. L’attore è un artigiano: deve conoscere prima a fondo il suo mestiere per poter creare».

Durante la lezione Ylenia Caputo aguzza i suoi occhi grandi, affamati di senso. Cataste di libri e il tempo fermo degli esami universitari improvvisamente hanno braccia e gambe che si muovono su assi di legno. «“Il teatro è erotismo, è sesso.. ed il sesso si fa in due, almeno in due. Non mi piace chi si masturba sul palco”. Le parole di Perrotta mi hanno fatto pensare agli insegnamenti di Lacan.. il teatro, l’attore ed il pubblico come corpo unico, sostanza godente. La Jouissance, il godimento del corpo che si contenta di se stesso, che vive  delle proprie pulsioni, quasi fosse un protendersi verso la morte, che morte non è, ma la spinta propulsiva verso l’Essere. Morte e rinascita. Ma, questo corpo unico preda della jouissance, che, nel nostro caso, è godimento dell’arte, è passato al vaglio dal Simbolico, dalla Legge che dimora in noi e ci difende dall’ipertrorfia pulsionale, chiedendo di obbedire ad un verbo, un’azione: l’ Esserci, nel mondo, in noi stessi e nell’arte. Io sto. Sono presente a me stesso e a voi».

Ma poi arriva il momento di scendere dal palco. «Una pausa, una sigaretta e la severità diventa sorriso, nel parlare della sua quotidianità come fosse uno di noi – commenta Gabriella – “Ci vorrebbero almeno nove mesi di lavoro insieme per…”, e parte il sogno ad occhi aperti di condividere training, sensazioni e lavoro attoriale». Paolo un po’ si commuove, lui che il teatro ha iniziato ad amarlo grazie al nonno di Mario: «Da “Mario Perrotta” a “Mario Perrotta”. Dalla Filodrammatica “Giosuè Borsi” dell’Azione Cattolica della cattedrale di Lecce diretta dal nonno Mario, all’AMA col nipote Mario. La via maestra che mi ha condotto al teatro ha un unico nome».

Se il teatro, come ci ha detto il nostro insegnante, è una relazione erotica, in questo amplesso adesso siamo in molti: tutti noi, moltiplicati del doppio, per quanti all’inizio non-eravamo, prima di esplorarci. Avevamo le braccia incrociate, i pugni chiusi: proteggevamo gli organi vitali e i genitali. Ora non più. Non so quanta fiducia abbiamo, già, gli uni negli altri. Di certo, ci sentiamo più potenti. Stiamo, “siamo”, totalmente, nel nostro qui e ora. Nel nostro corpo.